cronaca

'Mio figlio Stefano e il dovere della memoria' 

Redazione ANSA/ANGELO CARCONI
Pubblicato il 04-11-2019

A 37 anni dall'attentato alla Sinagoga di Roma

Signora , in queste ore la politica si divide sulla commissione contro l’antisemitismo proposta dalla senatrice Segre. Se la sente di tornare a quel giorno? Chiuda gli occhi: sono le 11.55 del 9 ottobre 1982. Cosa vede?
«Vedo tanta gente, gli amici di sempre con cui siamo appena usciti dal Tempio e soprattutto vedo i miei due bambini vestiti a festa. Bellissimi, vestiti uguali come faccio spesso. Ad un tratto tutto finisce... Capisco e grido: “Non voglio morire!” Mi arriva qualcosa in testa, cado a terra. Penso a un sasso, ma subito mi rendo conto che si tratta di una bomba a mano miracolosamente inesplosa. Ho schegge in tutto il corpo... Non sono morta nel fisico, ma moralmente, psicologicamente sì... Gran parte del mio cuore ha cessato di battere quel giorno».

La signora Daniela è la mamma di Stefano Gaj Tachè, «vittima del terrorismo a soli due anni», come c’è scritto sulla targa stradale a lui intitolata, inaugurata nel 2007, nello slargo tra via del Tempio e via Catalana, al lato della Sinagoga di Roma. Quello splendido bimbetto dagli occhi grandi e nerissimi morì, con il corpicino dilaniato, nell’attentato di 37 anni fa, rimasto il più grave atto antisemita avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra. Bombe a frammentazione e mitra alla mano, un commando di palestinesi seminò orrore e morte al termine della festa di Sukkot, dedicata dagli ebrei al ringraziamento e alla gioia interiore. Donna forte, Daniela. Ma quella ferita sanguina ancora. Suo marito Joseph partecipò ai funerali con una mano fasciata: quando un medico del Fatebenefratelli gli disse che il figlio era morto, scagliò un pugno contro la vetrata, per tentare di contenere la rabbia.

Lei non poté partecipare alle esequie del suo bambino, perché gravemente ferita, come altre 36 persone. Cos’altro ricorda?
«Dopo l’esplosione, sentii delle mani amiche che mi spingevano in una macchina. Persi conoscenza. Mi svegliai in ospedale, dove chiesi subito dei miei bambini. Riuscii a vedere la piccola bara bianca che usciva dall’ospedale, affacciandomi dal terrazzino del Fatebenefratelli. Ero controllata e tenuta fisicamente dai medici, che temevano una mia reazione».

Per due anni lo ha accudito, tenuto, in braccio, amato. Che genere di ragazzo sarebbe diventato Stefano?
«Mi hanno privato della gioia di vederlo crescere, ma sono sicura che sarebbe stato un bel ragazzo, simpatico, intelligente, generoso... Già così piccolo era portato per le lingue. Non so, forse si sarebbe laureato... Non posso sapere che lavoro avrebbe scelto, ma di certo mi avrebbe resa orgogliosa. Stefano era vita, simpatia, meraviglia. Un figlio dolcissimo».

Leggi tutta l'intervista di Fabrizio Peronaci qui 

Cari amici la rivista San Francesco e il sito sanfrancesco.org sono da sempre il megafono dei messaggi di Francesco, la voce della grande famiglia francescana di cui fate parte.

Solo grazie al vostro sostegno e alla vostra vicinanza riusciremo ad essere il vostro punto di riferimento. Un piccolo gesto che per noi vale tanto, basta anche 1 solo euro. DONA